Avventura o ordinarietà di tutti i giorni?

Erano le due, l’altra notte, quando il temporale mi svegliò. Oltre ai tuoni, era l’assordante rumore amplificato dalle lamiere ulle quali precipitava la pioggia battente a interrompere il sonno. A due metri al di sopra della mia testa non c’era la soletta in cemento, ma bensì il tetto in lamiera che mi proteggeva e mi separava dalla violenza con la quale il temporale si scagliava su di esso. Dalla finestra spalancata si sentiva entrare l’aria fresca ad alleviare il caldo che durante il giorno le stesse lamiere riscaldate dal sole avevano reso la camera un forno. L’abbassamento della temperatura, quella notte, permise di riposare bene e alzarsi ben riposati.

Al mattino non dovevo partire presto per recarmi nelle comunità, ma celebravo la messa in parrocchia. Alle sette, ora di inizio della celebrazione, i banchi offrivano ancora molti posti liberi ai credenti, che sicuramente erano incamminati per raggiungere la chiesa. La puntualità non era il loro forte e ad aumentare il ritardo - ieri mattina - erano soprattutto le condizioni del tempo instabile che augurava loro il buon giorno. Alle otto e mezza benedicevo e salutavo l’assemblea.

Alle nove ero oltre il fiume. Il batelão era ancora fuori servizio e pertanto stavo incamminandomi per recarmi a Hobjana. Erano ormai due mesi che mancava tale mezzo per traghettare la macchina. Nel frattempo, erano numericamente aumentate le barche dei pescatori che si rendevano disponibili per prestare il loro servizio a beneficio di tutti coloro che necessitavano di attraversare il fiume.. La permanenza del batelão fuori servizio era per loro anche una fortuna, perché le loro remate - a fin di sera - gli fruttavano una cospicua manciata di monete che gli permetteva qualche birra in più, e tornare alle loro abitazioni stanchi ma cantando e più allegri del solito.

Strada percorrendo, intrapresi un sentiero per accorciare la distanza. Più andavo avanti per quel sentiero e sempre più le condizioni del terreno diventavano pessime. Di fronte alle pozzanghere sempre più frequenti - che raggiravo o saltavo - e il fango sempre più alto e viscido - che sembrava incollarsi sotto le suola dei sandali e li appesantiva - decisi - come è solito fare dai mozambicani - di andare a piedi scalzi. Mi ricordava quand’ero bambino che mi divertivo entrare nell’acqua e a piedi nudi calpestare il fango. Ora, però, per non sporcare i sandali e per on rovinarli - come fanno i mozambicani per tenerli da conto - ero quasi costretto. Era un piacere entrare nell’acqua e sentire i piedi rinfrescati. Altra sensazione piacevole era sentire il fango morbido che calpestato avvolgeva il piede e entrava tra le dita. Meno piacevole fu quando uscii da una pozzanghera e vidi che tra le dita del piede erano rimasti i resti di una torta che sembrava appena sfornata da una mucca, che in quella zona erano numerose al pascolo.

 Tra pozzanghere e laghi, canali pieni d’acqua e terreni allagati, scivolate e riacquisto dell’equilibrio, in una pozzanghera profondai nel fango fino al ginocchio. I pantaloni della domenica che avevo avvolto fino al ginocchio, ed erano quelli che avevo portato nuovi dall’Italia per l’occasione vennero così battezzati. Strada facendo i passanti che incontravo mi guardavano meravigliati e sorridenti nel vedere che anche il mafumbisa mulungo (padre bianco) camminava a piedi scalzi con i sandali in mano. Quello che per me poteva sembrare un’avventura, per l’africano corrispondeva all’ordinarietà di ogni giorno. Prima di arrivare alla cappella, nascosto dietro alle sterpaglie mi pulii i piedi e calzai i sandali, rimisi i pantaloni apposto e mi riordinai. Alcune anziane, vedendomi arrivare - come è loro tradizione - mi vennero incontro per accogliermi e prendere la borsa che portavo con me, che conteneva l’occorrente per la celebrazione (calice, particole e vino, camice e stola, messalino).

La cappella era quasi al completo. Erano già le dieci e un quarto e essendo più o meno un’ora che stavano aspettando, senza perdere tempo in chiacchiere e in molti saluti iniziai subito le confessioni. Durante il cammino mi ero preparato spiritualmente con la recita del rosario. Siamo in tempo di avvento e ogni domenica, nelle  comunità dove ciascuno di noi sacerdoti si reca, ci disponiamo per le confessione in preparazione del Natale. Presi posto al confessionale, che consisteva nella sedia che mi avevano appositamente portato ai piedi di un grande albero appena fuori dalla cappella. Uomini e donne, uno dopo l’atra, si inginocchiavano sulla terra bagnata. Alcune volte trattenni l’emozione che provavo, nel vedere il modo sentito con il quale si accostavano alla confessione. Sopra di me, sui rami sentivo alcuni uccelli che col loro cinguettio sembravano accompagnare le prove di canto della celebrazione, che stavano preparando coloro che erano rimasti nella cappella. Al termine del canto anche il cinguettio terminava.

Dopo aver dedicato un’ora di tempo per le confessioni, iniziammo la celebrazione. Elogiai la loro pazienza mostrata, della quale non dubitavo e con la quale avevano atteso l’inizio della messa. Dissi loro che se fossi stato in Italia a quell’ora nella cappella non sarebbe rimasto più nessuno e che sarebbero già nelle loro case da molto tempo. Al contrario loro erano aumentati numericamente, nel frattempo che io confessavo. La messa fu ben partecipata da tutti, cantata e animata con tamburi e danze, che le ragazze avevano preparato. A un quarto all’una fuori dalla cappella ci scambiavamo i saluti e ci davamo l’appuntamento alla cappella di Matsinana per la celebrazione del giorno di Natale; una comunità che dista circa un’ora di cammino dalla cappella di Hobjana dove eravamo.

Intrapresi il cammino di ritorno e mi accompagnò il vecchio Fernando, l’animatore della comunità. Mi diceva che quattro mesi fa era morto suo figlio ed ora voleva far visita a sua nuora che abita a Marracuene. Suo figlio era giovane, nemmeno venticinquenne, ed anche il figlio che gli era da poco nato non sopravisse più di quattro mesi. Ed ora che ne sarà - mi diceva - di questa giovane vedova? Nel frattempo, mentre si confidava, percorsi un sentiero migliore rispetto a quello da me conosciuto. C’è sempre qualcosa da imparare e il sr. Fernando era contento di indicarmi un sentiero che non era così accidentato come quello da me percorso all’andata e che gli descrissi. Giunti a Marracuene lo invitai in casa a pranzo con me. Lo vedevo stremato e sicuramente come me era in piedi dalle cinque del mattino o forse anche prima. Erano ormai le due e mezza del pomeriggio quando ci sedemmo a tavola. Lo vidi mangiare con gusto e in poco tempo divorare quanto gli avevo messo nel piatto. Si trattenne a parlare del tempo atmosferico, che in questi ultimi mesi erano troppo piovosi e gli facevano ritardare la semina. Se, al contrario avesse seminato sarebbe marcito tutto. Io e la mia gente - diceva - viviamo con quello che seminiamo e con quanto il buon Dio fa crescere. Richiede molto lavoro e fatica, … dipendiamo dalle condizioni del tempo e non sempre è favorevole, certe volte non si raccoglie perché tutto secca per mancanza di piogge o, al contrario, i prodotti che maturano nella terra (come patate, mandioca, cipolle, carote …) marciscono per l’abbondanza della pioggia. Per fortuna il fiume e il mare ci dà il pesce.

Nel frattempo sopra di noi, altre nubi minacciose stavano facendo sentire la loro voce.

Marracuene, 12 dicembre 2010, III domenica d’avvento.

Ciao, vi auguro la pace del Signore. p. Ago.